martedì 14 aprile 2009

Capitolo VI - Rex et sacerdos

VI. In Illius Divae vallis, Susianā

Il sentiero che conduceva all’interno della valle era stato invaso dalle sterpaglie; la vegetazione lussureggiante, non più curata, si era aperta la strada invadendo i campi una volta coltivati.

Non a tutti i morti, in quel giorno maledetto, era stata data sepoltura. Nel grande campo di battaglia, all’esterno della valle, tutto era rimasto com’era. Lì, sulle sponde del lago, che ormai stava mutandosi in palude, dove si era combattuto non contro i Romani che reclamavano le loro province, ma contro incursori barbari, i poveri coloni a servizio del collegio sacerdotale di Illa Diva avevano seppellito la maggior parte dei corpi straziati subito dopo il termine della battaglia, ed avevano radunato gli altri; purtroppo, la sera dello stesso giorno, un manipolo di sopravvissuti bizantini aveva scovato l’entrata della gola, vi era penetrato ed aveva concluso la strage, colpendo gli uomini che stavano raccogliendo i cadaveri ed incendiando il villaggio, dove si trovavano donne e bambini.

In poco spazio, vent’anni dopo, rimanevo come monito per il futuro solamente i resti bruciati dell’Illius Ninfeo e del villaggio, in cui un tempo viveva Hexàmeron, mentre del famoso tempio di Illa Diva erano rimasti, danneggiati ma ancora in piedi, il colonnato frontale con il timpano ed il muro perimetrale. Le sculture erano state sfregiate, ma non avevano perso la pregiata fattura che le contraddistingueva.

Due uomini vestiti di nero, a cavallo, stavano entrando silenziosamente all’interno del bosco sacro che circondava le rovine dell’Illius Ninfeo. Uno, quello dalla figura più imponente, si comportava come conoscesse quel luogo a menadito.

Con fare sicuro, appena erano arrivati in vista del rudere, era smontato dal cavallo e l’aveva legato ad un albero, per poi avvicinarsi a quello che sembrava un pezzo di portale. L’altro gli tenne dietro con maggiore difficoltà e circospezione, poiché non aveva mai visto un luogo simile e non capiva il motivo per cui il cardinale l’avesse portato in mezzo a quella desolazione.

Quando erano arrivati, nel pieno della notte, a Damasco, avevano trovato ricovero per due giorni nella casa del vescovo locale che, dopo essere stati riforniti di mezzi, avevano lasciato per attraversare il deserto. In due settimane di viaggio tranquillo e solitario avevano raggiunto le sorgenti di un fiume, presso le quali giaceva una grande quantità di resti umani. Si erano quindi avvicinati al massiccio montuoso che si trovava non distante da quel luogo, ed erano penetrati in quella valle nascosta.

ΡαεFώθζ era passato sotto il portale, ed uscì subito dopo chiamando il suo compagno:

«Iorges, avvicinati e vieni dentro. Dobbiamo cercare una cosa.»

Il giovane monaco seguì la sua guida, ed insieme entrarono nella grande costruzione.

Il fuoco aveva distrutto tutto quanto c’era di legno, e i soppalchi che separavano i vari piani dell’edificio erano crollati, lasciando solo la scala elicoidale, di marmo, che percorreva la parete interna.

«Eminenza, credo che non sia possibile trovare nulla in mezzo a queste rovine. Se anche fosse rimasto qualcosa dall’epoca della battaglia, certamente ora sarebbe già stato rubato o, come credo più probabile, corrotto dal tempo.»

Il cardinale non l’ascoltava; era impegnato a cercare, tra le ossa dei barbari e dei soldati che giacevano qua e là, abbrunite dal fumo, un segno che gli potesse far riconoscere i propri commilitoni. Le scimitarre appartenevano a soldati delle forze di sicurezza del Tema di Susiana, che comandava, mentre le corte daghe erano le armi dei Massageti.

Giungendo perfino a scavare con le mani sotto i detriti dei soppalchi crollati, il cardinale cercava, in primo luogo, i resti del suo primo ufficiale, che era morto quando ormai la battaglia era stata vinta.

Confidando troppo in se stesso, dopo aver ucciso uno dei due capi barbari che guidavano l’incursione all’interno dei territori governati da Adriano Re, aveva voltato le spalle al compagno di lui ed era caduto, un momento prima che ΡαεFώθζ giungesse ad aiutarlo.

Seminascosta da un piccolo scudo di cuoio marcito, che era appartenuto a Currus, capo dei Massageti, giaceva una scimitarra che portava incisa sull’elsa un’iscrizione latina:

Vi ordinem serba: serba ordinem, et ordo serbabit te. Panattus dedit[1].

Il suo primo ufficiale, Αρσωΐν, aveva ricevuto la sua scimitarra in dono da Panatto Retore, primo consigliere del re e, come si scoprì in seguito, Patriarca di Costantinopoli; anche ΡαεFώθζ aveva ricevuto un’arma da quell’uomo, la stessa arma che portava tuttora sotto la veste; ma l’iscrizione era troppo rovinata per essere leggibile.

Trovare i resti del proprio più affezionato commilitone abbandonati a loro stessi lo fece restare alquanto; finché si riscosse dalla particolare condizione in cui era caduto cercandoli, chiamò a gran voce Iorges, che era rimasto nell’atrio del ninfeo, e gli ordinò di aiutarlo a seppellire Αρσωΐν appena fuori dell’edificio.

Sperando che tutto quello che veniva coperto di terra avesse effettivamente fatto parte di lui, e di non aver sepolto anche un pezzo di barbaro, i due religiosi si allontanarono dal ninfeo, dirigendosi verso il Tempio di Illa Diva, che era stato dato alle fiamme da un misterioso personaggio poi scomparso ma che, essendo fatto di legno solo il tetto, era rimasto quasi intatto.

Non c’erano più barche per raggiungere l’isola sulla quale sorgeva il santuario, ma la stagione era secca e fu possibile guadare il braccio di lago che separava il ninfeo dal tempio.

Il podio, decorato di donne in processione, era stato rovinato da qualche mano iconoclasta, ma l’insieme era fatto salvo.

Lo stilobate era sporco e coperto di foglie putrescenti, ma l’interno, se non fosse stato per l’aspetto spettrale che aveva, era intatto.

La luce, poiché il sole era basso, non entrava dal tetto, ma dalla finestra che, una volta, serviva per illuminare il loculo dove era posta la statua di Illa Diva, che poi era stata portata via da Quinto Fabio, stratego del Tema di Susiana che aveva deciso di seguire i sopravvissuti del suo esercito.

Infatti, al termine della battaglia, il patriarca di Costantinopoli aveva ordinato il suo segretario Pagno sacerdote e l’aveva inviato verso l’Oriente, con lo scopo di formare un nuovo regno cristiano; Quinto Fabio l’aveva seguito, chiedendo di potersi dedicare al culto di Illa Diva, la cui statua aveva salvato dall’oblio.

All’interno del tempio rimaneva ancora il braciere d’argento, entro il quale, un tempo, ardeva il fuoco sacro, e lo scanno della gran sacerdotessa, dietro al quale erano riposti i libri che Panatto aveva preso e che, in seguito, gli aveva fatto avere.

ΡαεFώθζ si era seduto, meditando, quando fu raggiunto da Iorges che, nel frattempo, aveva indugiato all’esterno della costruzione.

«Eminenza, ora che è escluso che alcuno ci senta, mi potete dire qual è la missione che dobbiamo svolgere? Mi avete detto solamente di proteggere la copia che mi avete fatto fare di quel libro, ed io l’ho sempre fatto, ma non capisco a che scopo. E, soprattutto, cosa siamo venuti a fare qui? E perché nelle vicinanze ci sono tanti cadaveri?»

«Dom Iorges, io non so se sei pronto per sapere quello che vuoi farti dire, ma te lo dirò ugualmente.

Ci troviamo nella valle in cui, fino a vent’anni fa, si trovava il santuario di Illa Diva. Illa Diva è una divinità di origine indoeuropea, come sono di origine indoeuropea le divinità dell’Olimpo e quelle venerate un tempo in Persia e in India.

La teoria propugnata dal patriarca Panatto sostiene che, in realtà, il monoteismo ebraico, dal quale discende la religione cristiana, non è di origine semita, ma è stato originato dopo la cattività babilonese del popolo di Israele e la sua liberazione da parte dei Persiani, che anticamente regnavano su queste regioni. Lui cercava prove che il monoteismo avesse riscontri in altre regioni abitate da popoli indoeuropei, e che fossero presenti comunanze tra i riti di religioni differenti. Questo santuario, nel quale si venerava una divinità molto simile per attributi sia a Vesta, dea del focolare, che alla vergine Maria, celava testi che avrebbero provato tale ipotesi, come in realtà hanno fatto.

Pochi mesi fa mi è giunta da Costantinopoli una lettera, inviata dal patriarca Panatto, ormai molto anziano, che mi annunciava sarebbe partito per fuggire dalla sua città, nella quale si preparava una rivolta contro di lui, e mi affidava i testi, chiedendomi la promessa di rincontrarci nel regno del Presbiter Johannes, che si trova in Transoxania. Ho riferito tutto ciò al Papa, e il Santo Padre mi ha affidato, in più una lettera da portare al re-sacerdote, circa una questione di diocesi nell’Italia meridionale che ci divide dalla sede patriarcale di Bisanzio.»

Questa quantità di informazioni gettata improvvisamente su Iorges lo fece barcollare, e gli fece porre una domanda.

«Eminenza, e perché sono stato chiamato?»

«Te l’ho già detto, figliolo. Un monaco di fiducia avrebbe in ogni caso dovuto copiare il libro che proteggi, e avrebbe poi dovuto o seguirmi, o essere rinchiuso in qualche eremo, come ti avevo già precedentemente ventilato.»

Dopo aver finito di parlare, il Cardinale si alzò, uscì velocemente dal tempio, senza indugiare ancora nei ricordi, e tornò, insieme a Iorges, sull’altra sponda del lago.

«Eminenza, perché il santuario è stato devastato?», chiese il benedettino, mentre stavano montando a cavallo.

«Dopo aver sconfitto i Massageti e finito chi cercava di fuggire, il patriarca Panatto, Iohannes Pagno, suo segretario, e Quinto Fabio entrarono nel tempio di Illa Diva, insieme ad un enigmatico personaggio che incontrammo nel villaggio qui vicino e che disse di chiamarsi Abbà. Attirato dai tesori che erano raccolti nell’edificio sacro, li sottrasse e, prima che riuscissimo a fermarlo, appiccò il fuoco al santuario e sparì dalla nostra vista. Sinceramente, credo che fosse un volgare ladro, ma impressionò molto gli altri presenti. Soprattutto per questo motivo, non è mai stato ricercato.»

Quando ΡαεFώθζ finì di parlare, già stavano lasciandosi alle spalle la valle di Illa Diva, dirigendosi verso oriente, percorrendo la via carovaniera che portava al Catai, oltre le montagne del Pamir.



* Valle di Illa Diva, in Susiana

[1] Mantieni l’ordine con la forza: conserva l’ordine, e l’ordine ti conserverà. L’ha donata Panatto

venerdì 14 marzo 2008

Capitolo V - Rex et sacerdos

V. Bucharae, in Transoxaniā*

La corte itinerante del Presbiter Johannes, dopo i quattro mesi durante i quali aveva risieduto a Nova Magna, si era trasferita nella seconda capitale del regno, Buchara, città strappata ai nomadi turchi e nella quale era stanziato il più numeroso esercito della Transoxania.

Mentre il Presbiter amministrava la giustizia all’interno del suo palazzo, lo stratego Immanuel Calais definiva il dislocamento sul confine orientale delle truppe che aveva fatto ritirare dal fiume Oxus, e che ora attendevano acquartierate nei forti che circondavano la città.

Fabio, nonostante fosse semplicemente il custode del santuario di Maria Nostra Diva, era molto più esperto di lui nell’arte militare. Prima di iniziare a svolgere il proprio compito, era stato un ufficiale della milizia in una provincia dell’Impero Bizantino, stando almeno a quanto si diceva tra i veterani.

In Immanuel aveva sempre suscitato un’ammirazione mista a timore riverenziale. Quando parlava, lo guardava fisso negli occhi e sembrava indagare il suo pensiero.

Per questo motivo aveva preferito non porre la sede dell’esercito a Nova Magna, e non solamente perché la città montana era tagliata fuori dalle vie di comunicazione, come, ufficialmente, aveva detto al Presbiter.

Ripensandoci, Immanuel si sentiva falso, ma era soddisfatto di aver ottenuto il comando di un numero di uomini proporzionato al territorio che doveva controllare.

Lo scotto che aveva dovuto pagare era il ritiro completo dalla frontiera dell’Oxus, ma il deserto che separava il fiume dai domini arabi, e il fiume stesso, che non si trovava mai in magra, erano, a parere unanime del gabinetto di guerra, deterrenti sufficienti a tenere lontani eserciti nemici, che per di più non avevano notizie certe del territorio amministrato dal Presbiter Johannes. L’altro confine, al contrario, era facilmente violabile, perché si trattava di un basso terrapieno in mezzo alla steppa, che correva fino ai primi rilievi dell’acrocoro del Pamir. La Via della Seta, che transitava nel regno del re-sacerdote, attraversava la città di Samarcanda e passava a poche miglia da Buchara, portando all’interno della Transoxania carovane di mercanti diretti nell’estremo Oriente.

Le forze su cui il regno del Presbiter Johannes poteva contare erano soprattutto squadroni di cavalleria, che montavano i piccoli ma robusti animali delle pianure aride, come pure facevano le popolazioni mongole e turche con le quali il regno confinava.

Immanuel stava appunto spiegando questa situazione ad un gruppo di ufficiali, quando entrò trafelato nella sala dove si trovavano un messo, inviato da una tribù nomade che viveva non molto lontano dai confini del regno, e che aveva sempre mantenuto ottimi rapporti con lo stato cristiano. Parlando in un greco molto stentato, e quindi in un velocissimo e rotto turco, quando si sentì rispondere nella propria lingua dallo stratego, riferì dell’avvicinamento al proprio villaggio da parte di una popolazione sconosciuta ma terribile, che già aveva saccheggiato moltissimi villaggi della steppa e che stava assediando Talas, sul confine con l’impero cinese.

Le pochissime informazioni che conosceva affermavano che quella popolazione era composta, secondo i testimoni, da temibili donne guerriere, mentre l’unico uomo che esulava dalla condizione servile era il loro re, il cui nome sarebbe suonato, in latino, Faber Rosarum.

Dopo aver preteso tributi, in virtù della preponderanza militare, avevano iniziato a saccheggiare i villaggi che si erano rifiutati di pagare, e in quel momento stavano tenendo in scacco un’armata inviata dal principe Tang, imperatore dei Cinesi.

Se, come sembrava probabile, quel popolo, che per affinità con le mitiche guerriere ircane, era chiamato Αμαζόναθας[1], si fosse diretto verso la frontiera settentrionale della Transoxania, l’esercito del Presbiter Johannes si sarebbe trovato in gravi difficoltà nell’arginarne l’impeto.

Spronato da questa improvvisa comunicazione, Immanuel Calais si affrettò a far spostare tutti i suoi soldati lungo il confine settentrionale del regno, e partì lui stesso per il vallo che divideva lo stato cristiano dalla steppa, dominio delle nomadi popolazioni mongole, quali gli Avari, i Turchi e gli Unni.

La quotidiana celebrazione del Presbiter nella cattedrale di Buchara attirava grandi folle di pellegrini. I mercanti bizantini assistevano alle celebrazioni dall’esterno, diffidenti per la mancanza dell’iconostasi, ma rassicurati per i paramenti, così simili a quelli utilizzati dal rito orientale; i mercanti cattolici frequentavano la messa solamente se si trovavano a passare per la città la domenica. Gli Arabi non erano ammessi all’interno delle mura delle città.

Mischiato alla gente di tutte le razze che era convenuta per la celebrazione, anche un pellegrino, che aveva lo stesso aspetto di quelli che si recavano in Terra Santa, assisteva al rito. Stringeva in mano un lungo bastone nodoso, e partecipava alla funzione con fervore e raccoglimento.

Al suo termine, si accodò ad una comitiva di Persiani che sarebbe partita l’indomani per il santuario di Maria Nostra Diva a Nova Magna. Durante tutta la giornata era riuscito a strappare ai suoi compagni di viaggio, a quanti avevano già visitato la celebre città, perduta in mezzo ai monti, notizie sul santuario, cercando maggiore precisione di quanta erano in grado di fornirgli i pellegrini, che della loro visita ricordavano più la fatica del viaggio o il freddo della notte, e che se si ricordavano qualcosa del santuario, era la celebre statua di Maria Nostra Diva, che a lui non importava punto.

Nessuno, di quei bifolchi, ricordava quali fossero le proporzioni del timpano o l’ordine dei capitelli del tempio, o se la pianta della città fosse a maglia quadrata o centrata intorno ad una piazza, o ad un edificio.

I suoi compagni di viaggio lo avevano ripreso più volte, appellandolo “senza Dio”, siccome anteponeva sempre l’edificio al rito che dentro si svolgeva. Anche quella mattina, sebbene sembrasse a tutti in rapimento mistico, stava osservando con attenzione prima il disegno musivo della pavimentazione policroma, e poi la raffinata pala che si trovava dietro l’altare.

Non che fosse un materialista, sensibile solo alle opere dell’uomo, ma credeva che l’armonia architettonica fosse specchio della perfezione del suo artefice.

In quel periodo, stava cercando, vagando per tutto il mondo conosciuto, la costruzione di culto più raffinata e proporzionata. Non l’aveva trovata né nelle solide architetture gote né nella luce immateriale delle chiese bizantine, per non parlare della moschea di Damasco, che aveva assorbito solo la malagrazia della basilica paleocristiana; un vecchio che aveva incontrato alle rovine di Susa, dove si era recato sperando di poter ammirare il palazzo del Re, ma di cui aveva trovato solo un muro diroccato, gli aveva riferito che la popolazione sopravvissuta si era rifugiata al nord, nella Transoxania.

Lungo la strada aveva raccolto altre informazioni, ed ora che si trovava a solo un centinaio di miglia dal suo obiettivo, la città di Nova Magna, ogni minuto di ritardo lo esasperava.

Partendo per la montagna insieme con un gruppo di Persiani, e girandosi, vedendo la città di Buchara spuntare dalla nebbia del mattino –che cattedrale orribile!– strinse inconsapevolmente l’arma che portava sotto il saio.



* A Buchara, in Transoxania

[1] Amazònathas

martedì 4 marzo 2008

Capitolo IV - Rex et sacerdos

IV. Byzantii*
Tra la folla variopinta che affollava le viuzze della nuova Roma, composta di gente di tutte le razze e di tutte le nazioni del mondo, nessuno notava la strana coppia che, ormai da qualche giorno, percorreva il decumano massimo cercando, in tutte le botteghe, qualcuno che non arrivava mai.
Erano due uomini, uno giovane e fiero, che apparteneva a qualche popolazione germanica, l’altro di mezza età, vestito come un pastore e con una corta barba di foggia persiana.
Non erano rari, a Bisanzio, vecchi che vestivano alla maniera degli abitanti della Persia, soprattutto da quando, una ventina d’anni prima, il grande impero, tradizionale nemico dei Romani d’Oriente, era caduto sotto la dominazione araba.
Questi vecchi, perlopiù visionari e stregoni zoroastristi, erano considerati infidi dalla popolazione urbana, che, a volte, ne lapidava qualcuno, ma sembrava fossero stati accolti in buon numero all’interno del Sacro Palazzo, da quando il Sinodo clandestino aveva cacciato il Patriarca Panatto e aveva insediato un patriarca, isaurico come il nuovo imperatore Leone.
L’eresia Isaurica, nata soprattutto per i contatti tra ascetismo orientale e le religioni aiconiche mussulmana ed ebraica, aveva accettato anche il manicheismo degli Zoroastristi ed era, in virtù del sincretismo cui era ispirata, molto ben accetta dal popolo, che nella sua quasi totalità la professava.
Il giovane germanico, dalla figura altissima ed imponente, apparteneva al popolo dei Franchi, che si era da più di un secolo insediato nella Gallia settentrionale e nella Belgica. A dispetto della giovane età, era uno dei nobili più insigni del suo popolo, ed era stato nominato comes del re poco prima di partire per quella missione diplomatica.
L’uomo più attempato che l’accompagnava era uno dei consiglieri del re dei Franchi; il motivo per cui sembrasse persiano poteva essere una coincidenza, oppure determinato da sue effettive origini orientali. In realtà, pochi sapevano donde venisse o come avesse fatto ad ottenere il proprio compito, e meno ancora perché avesse spinto il Consiglio del Re ad indire quella missione.
I due uomini vagavano per il decumano massimo cercando informazioni sul precedente patriarca di Costantinopoli, di cui erano sparite le tracce al tempo del Sinodo; era come se il consigliere del re avesse un antico conto in sospeso con il religioso, e andasse cercandolo con foga innaturale.
Dal canto suo, il giovane conte assecondava il dignitario che gli fungeva anche da guida, poiché conosceva perfettamente tutti i remoti recessi della città e di tutte le città che avevano attraversato.
Anche quel giorno, allo stesso modo di tutti quelli della settimana precedente, i due avevano chiesto la stessa cosa in tutte le bettole in cui erano entrati. Senza successo.
In quella in cui si trovavano in quel momento era seduto, in un angolo buio, un contadino che veniva dalla Tessaglia. La descrizione del Patriarca di Costantinopoli Panatto, accompagnata dal suono delle monete che i due tenevano in mano, lo fece alzare ed avvicinare al conte.
Con voce bassa ed incerta, rivolse loro la parola:
«Il Patriarca Panatto? Un vecchio come quello di cui dite è passato dal mio villaggio il mese scorso. Non credo, però, che sia il nostro vecchio patriarca. Poteva sembrare un’eremita, anche se mi era sembrato strano che si accompagnasse ad un soldato barbaro.»
Il giovane conte sobbalzò.
«Soldato barbaro? Che aspetto aveva?»
«Era tarchiato, ceruleo di occhi e aveva capelli rossi. Poteva sembrare uno di quei mercenari longobardi arruolati nell’esercito, ma viaggiava da solo, mentre li ho sempre visti con tutta la loro famiglia al seguito.»
Il giovane stava per rispondere, ma l’inizio della sua domanda venne sovrastato da quella del suo compagno.
«Bene. Per dove erano diretti?»
«Non lo so, signore, non so dove volessero andare o dove avrebbero trovato requie. Ma il barbaro parlava di confini dell’Oriente.»
Il contadino fu immediatamente pagato, dopo avergli intimato di non parlare con nessuno del loro incontro, e i due uscirono dalla bettola affrettandosi alla locanda dove erano alloggiati.
«Abbà, siete sicuro circa la segnalazione del Patriarca?», chiese a bruciapelo il giovane.
«Comes Damien Dusieur, la dichiarazione è certamente attendibile. Ci dovrebbe preoccupare il Longobardo, piuttosto. Significherebbe che Panatto è riuscito a trovare alleati. Dobbiamo raggiungerlo prima che attraversi l’Oxus e si perda nelle steppe dell’Asia centrale.»
Arrivati velocemente al luogo dove alloggiavano, si prepararono per la partenza; Abbà si gettò sulle spalle una sacca di pelle, mentre Dusieur si preparò vestendosi alla Franca, appendendo ad un pesante cinturone, stretto attorno alla tunica che copriva la cotta di maglia, la spada a due tagli.
Partirono subito dopo, entrambi a cavallo, cercando di recuperare il tempo che potevano aver perso nei confronti di Panatto e del misterioso Longobardo.
*A Bisanzio

lunedì 29 ottobre 2007

Capitolo III - Rex et sacerdos

III. In duci Demetrii castris, in Langobardiā*
La lunga notte moriva nella grande pianura, le poche tende disposte attorno ai resti di un falò spuntavano appena dalla nebbia lattiginosa che non era ancora salita. Cinque cavalcature erano legate ad una sbarra e sbuffavano vapore dalle nari. Nella sua tenda il dux Demetrius Vonherus vegliava già da quasi un’ora, mentre nelle tende vicine ancora tutti dormivano. In un angolo erano appoggiati una lunga lancia ed uno scudo ricoperto di pelli. Un rotolo di pergamena con il sigillo violato era semidisteso su una tavola di legno, scarabocchiato in un latino imbastardito.
Il dux si alzò dal suo sgabello, il grosso cane levò lo sguardo da terra, gettò un’occhiata distratta al padrone e tornò a dormire; l’uomo uscì dalla tenda, dirigendosi verso il quartiere dei servi, per far riaccendere il fuoco e preparare il desco. Si trovava nello spiazzo principale dell’accampamento, quando dalla nebbia emerse la figura alta e magra di un vegliardo. Demetrius scorse un cerchio di capelli bianchi intorno alla testa, quando il vecchio si scoprì, togliendo il cappuccio della sua caracalla. Nel silenzio, rotto solo dal respiro ritmico dei cavalli, il vecchio fece un cenno al rozzo soldato, indicandogli di sedersi. Poi aprì la bocca, salutandolo. Il barbaro non capiva il greco in cui parlava l’uomo che gli si trovava innanzi, e impugnò la grossa spada a due tagli che portava appesa alla cintola, brandendola minacciosamente verso di lui. L’altro, avendo intuito che il suo interlocutore non lo comprendeva, ripeté il saluto in latino, questa volta compreso.
Il dux Demetrius gli rispose, nonostante il suo latino non fosse paragonabile a quello del vegliardo.
«Buongiorno a te. Chi cerchi?»
«Stavo cercando voi, signore. Vorrei proporvi un’impresa illustre, che vi porterà grande fama presso il vostro popolo, un’impresa in terre lontane che nessun Longobardo ha mai visitato.»
«Io non ti capisco, Romano. Non ti conosco, e tu vieni a casa mia proponendomi di lasciare la mia terra per località ignote.»
Fece cenno ad un servo che si stava avvicinando, mandandolo a prendere la pergamena che si trovava nel suo studio. Quando fu tornato, continuò.
«Vedi questo foglio? Il mio re Bugarico mi ordina di penetrare nel regno dei Gepidi con la mia fara, per raggiungere la loro capitale entro primavera. Non posso seguirti.»
«Voi conoscete la potenza dell’impero romano bizantino, e sapete che non solo vi sovrasta enormemente, ma che anche ostacola il vostro cammino verso la totale conquista della verde Italia. Seguitemi e acquisirete una forza tale da non essere più secondi a nessuno in Europa.»
Gli occhi cerulei del capo barbaro brillavano di avidità.
«Cosa mi chiedi, dunque?»
Sorridendo, giacché si era avveduto che il suo rozzo interlocutore stava cadendo nella rete che aveva teso, il vecchio rispose:
«Venite con me oltre i confini dell’Oriente, ed io vi ricompenserò. È una missione d’importanza fondamentale che il Patriarca Ecumenico di Bisanzio vi vuole affidare.»
«Chi è questo Ecumenico? Non lo conosco.»
«Ora lo conoscete.»
Demetrius non sembrava capire.
«Sono io!», sbottò innervosito il religioso.
Il Longobardo era sul punto di accettare, ma presentò un’ultima obiezione.
«E chi amministrerà la mia fara?»
«So che il più promettente dei vostri nipoti è il giovane Liutprando. Scegliete lui.»
* Nell’accampamento del dux Demetrius, in Langobardia

venerdì 19 ottobre 2007

Capitolo II - Rex et sacerdos

II. Novae Magnae, in Presbyteri Johannis regno*
Un grande concorso di folla si era riversato lungo la strada che conduceva alla città, per festeggiare il periodico arrivo della corte del Presbiter Johannes. La processione era iniziata all’alba, aperta da centoquarantaquattro grandi croci tempestate di pietre preziose, seguite dalle insegne del Presbiter, da un migliaio di reliquiari argentei, dagli appartenenti alle confraternite delle città di tutta la Transoxania, dalle forze scelte dell’esercito, guidate dallo Stratego Immanuel Calais, e da mille altre meraviglie che gli occhi potevano vedere ma le parole non possono descrivere. Dopo ore di processione, dall’ultima curva della strada, che tortuosa attraversava scoscesi monti per giungere all’altopiano su cui sorgeva la città, si rivelò alla vista un grande baldacchino di seta impreziosito da sfavillanti gemme multicolori.
Scortato dalla guardia d’onore e accompagnato da dodici diaconi, il Presbiter Johannes incedeva verso la città, vestito di un lungo manto bianco che ne lasciava scoperto il capo, sul quale poggiava l’insegna del potere spirituale, secondo la foggia della Chiesa orientale. In mano aveva la croce, ripresa direttamente dall’insegna del Papa di Roma.
Erano passati vent’anni da quando aveva assunto il potere, ma il volto del re-sacerdote brillava ancora di giovanile ardimento. Entrava ora a Nova Magna, una delle capitali del suo regno, quella più isolata dalle vie commerciali che erano il motore dell’economia dei suoi domini, ma quella che attirava più pellegrini da tutta la Transoxania e anche dall’India.
Da una terrazza naturale dell’altopiano, incombeva la gran mole classicheggiante della chiesa madre di Transoxania, il famosissimo santuario di Maria Nostra Diva. Il timpano, ornato da un fregio di marmi multicolori, era esposto a sud ed era ben visibile da tutta la città. La gran massa di popolo era accalcata ai lati della via che, entrata a Nova Magna, saliva alla grande chiesa.
Quando, dopo il mezzogiorno, tutta la processione e, dietro di essa, il popolo furono giunti alla sommità dell’altopiano, il Presbiter Johannes, attorniato dai suoi diaconi, celebrò la Messa, che fu seguita da un grande banchetto.
Tra una portata e l’altra, che si succedevano ormai da ore, Immanuel Calais si avvicinava al suo signore, per aggiornarlo sui fatti che erano avvenuti in città nell’ultimo anno. Il rumore della festa si diffondeva in tutta la città, e le finestre del palazzo dominico, con la loro luce, rischiaravano la notte circostante. La città era buia: tutti gli abitanti di elevata condizione sociale erano invitati ai festeggiamenti, il popolo minuto dormiva come tutte le altre notti. Il santuario di Maria Nostra Diva era lievemente illuminato dall’interno, e un diffuso chiarore rifletteva sulle colonne di marmo bianco. Dietro il pronao era posto un braciere, dentro il quale ardeva un fuoco, piccolo ma sano. Dal fondo della navata osservava la scena, da una nicchia chiuse da colonne d’acquamarina, una statua non molto grande dai riflessi bluastri. Rappresentava una figura femminile dall’indicibile grazia. Se la perfezione fisica era già stata raggiunta dalle opere degli scultori della grecità, la perfezione morale che traspariva dalla statua non era mai stata raggiunta prima. I Greci utilizzavano la perfezione fisica per rappresentare quella morale; e il portamento eretto, le proporzioni delicate, la vita alta e il bel volto incorniciato da lunghi capelli sarebbero bastati per un Policleto. Quella statua possedeva una forza trascendente i cinque sensi della percezione, ma percepita da tutti gli osservatori: quella statua rifulgeva di grazia. In quel santuario assolveva alla funzione di simulacro mariano e tutti i pellegrini si chiedevano chi avesse mai realizzato un sì mirabile artefatto.
Il custode del Tempio e del Fuoco, a quella domanda, rispondeva sempre con le medesime parole: «Anni fa, venne da occidente un sacerdote che fondò su queste terre un grande regno e che tuttora è il vostro signore terreno. Insieme a lui arrivò su questo altopiano un soldato, che aveva visto le battaglie più sanguinose di quell’epoca e aveva sotto di sé migliaia di soldati. Era rimasto solo, e si fermò su questo altopiano fondando la città e costruendo questo santuario per venerare Maria Nostra Diva, la cui statua che vediamo in questo tempio aveva personalmente trasportato per tutto il suo viaggio. La donò al tempio e di lui non si seppe più nulla. Probabilmente è stato il predecessore dello stratego Immanuel Calais.»
Il custode del tempio aveva appena finito di spiegare queste cose a due giovani pellegrini indiani quando entrò nel santuario uno dei soldati del Presbiter Johannes, che lo chiamò e gli riferì:
«Il Reverendo Presbiter Johannes vi fa chiamare al suo palazzo, fratello Fabio.»
Vestito di un ruvido saio, Fabio si presentò al palazzo di marmo del re–sacerdote quando già gli ospiti avevano finito di andarsene. Nel grande atrio, vestito con una lunga cotta di maglia rinforzata sul torace e sulle spalle con scaglie di metallo, lo stava aspettando Immanuel Calais, stratego della Transoxania, che era il territorio su cui regnava il Presbiter. Appena lo vide, Calais s’irrigidì con deferenza, nonostante l’aspetto dell’ospite fosse alquanto malandato.
«Fratello Fabio, il Presbiter la sta aspettando di là nel suo studio privato. Mi posso permettere di ricordarLe» disse facendo sentire la maiuscola «che la situazione dei nostri organici militari è scarsa e che avremmo bisogno di nuove leve?»
Fabio annuì, divertito per il tono del generale. «Sì, Immanuel. È tuttavia la quarta volta che glielo chiedo e tu non sei mai stato esaudito. Pare che il Presbiter abbia un altro tipo di preoccupazioni.»
E, così dicendo, spinse la grande porta di legno intarsiato entrando nello studio del re–sacerdote. Tra le due pareti, adibite a biblioteca e ricoperte di voluminosi tomi, era posto un grande tavolo, dietro al quale sedeva la figura giovanile coronata da uno zucchetto nero. Il Presbiter Johannes si alzò non appena Fabio fu a distanza di voce.
«Signore, non vi ho visto al mio banchetto sebbene vi avessi mandato a chiamare. Volevo conoscere quanto è successo a Nova Magna negli ultimi nove mesi che prescindesse dal pettegolezzo»
«Johannes, non è bene che popolo o notabili ci vedano insieme, Sai che ho voluto rimanere in questa città perché è la più isolata del tuo regno e non ho voluto alcuna responsabilità di governo perché ho voluto rimanere al servizio della Mia Diva, Nostra Diva. Non ha senso che siamo visti insieme.»
Il re, che pure ostentava deferenza nei confronti di quell’uomo, cercò di ribattere:
«Non è per questo che vi ho fatto chiamare. Ho meno soldati di quelli che servirebbero a sorvegliare i confini, e quel Calais vuole anche fare una spedizione contro i Cinesi che premono troppo a nord-est. Cosa ne dite voi, che anni fa eravate il generale più invidiato dell’Oriente?»
«Ho servito il mio Paese e non chiedo nulla dal tuo, ma vorrei sapere perché, con questi problemi, non arruoli un numero maggiore di soldati. Gli uomini della Transoxania non sono pochi come mi han detto vuoi far credere al tuo stratego.»
Il Presbiter era contrariato.
«Non voglio che il mio regno diventi come il vostro, una macchina da guerra. Io voglio un regno di pace.»
«Si vis pacem para bellum[1]. Per mantenere la pace è necessaria la sicurezza. Se vuoi il mio consiglio, richiama altri alle armi, e sposta i soldati che hai da dove il confine è più sicuro. A ovest c’è il fiume e poi il deserto; a sud il mare e infiltrazioni arabe; a ovest l’Indo, a nord popolazioni nomadi e a nord-est i Cinesi: non dovrebbe essere difficile scegliere da dove togliere effettivi.»
Fabio, a questo punto, si alzò dallo scanno su cui aveva seduto fino ad allora e si diresse verso la porta, ma Johannes lo fermò.
«Mi è arrivato oggi un messo che mi ha riferito di una novità a Bisanzio: il Patriarca Panatto è stato deposto da un Sinodo clandestino ed è un’altra volta sparito.»
Il re–sacerdote era sinceramente preoccupato, perché era stato ordinato dal Patriarca e lo stesso Patriarca gli aveva affidato la missione di fondare il regno cristiano che ora reggeva.
«Non preoccuparti. Non è impossibile che torni da te. Conosce il luogo dove ci troviamo e sa che qui troverebbe aiuto»
Dicendo queste parole Fabio si accomiatò dal giovane sovrano, che non si era tranquillizzato per le sue parole.
Immanuel Calais attendeva fuori dello studio.
«Allora?»
«Niente spedizione in Cina, ma gli ho consigliato di aumentare il numero dei soldati. Staremo a vedere. A che punto è la costituzione di quel corpo speciale di cui mi dicevi?»
«Quasi ho finito. Vuole comandarlo lei?»
«No. Ma forse ce ne sarà bisogno.»
Lasciando così lo stratego, Fabio uscì dal palazzo e tornò al santuario. La notte era scura, anche le luci del palazzo erano spente.
Solo ardeva il fuoco nel pronao del tempio. La statua nella nicchia balenava a sprazzi.
* A Nova Magna, nel regno del Presbiter Johannes
[1] «Se vuoi la pace prepara la guerra»

Capitolo I - Rex et sacerdos

I. Subiaci, in Romano ducatu*
La trascrizione degli scritti di Sant’Agostino procedeva alacre nel vasto scriptorium; dall’esterno giungevano i suoni della campagna, il silenzio dell’interno era accompagnato dal rumore delle penne che grattavano la pergamena. Il monaco lavorava chino sul suo bancone, gettando di tanto in tanto uno sguardo al testo che stava copiando.
Era la traduzione in latino di un antico testo orientale, portata da un chierico di Roma pochi giorni prima con l’ingiunzione di farne una copia il più velocemente possibile e senza miniature né fronzoli. Il giovane monaco copiava senza pensare, nonostante alcune parole che scriveva non avessero per lui alcun senso: Avesta, Ahura, Veda…
Quando ebbe finito, ripulì la penna dall’inchiostro e si alzò dal duro seggio. Portando il manoscritto e l’originale all’abate, che si trovava dalla parte opposta del monastero, e osservando i colori della natura in autunno, il giovane provò nostalgia per il mondo, che aveva deciso di lasciare prima di entrare nell’ordine benedettino.
Il desiderio di vedere e conoscere il resto dei mille ambienti e panorami del creato lo prese e gli fece rimpiangere, per un attimo, la vita secolare.
Entrato nella sala del capitolo, questo e mille altri pensieri svanirono.
Ad attenderlo, in piedi accanto alla parete, c’era un prelato. Il monaco gli cercò un anello al dito da baciare, ma non lo trovò.
«Puoi consegnarmi l’originale, ma tieni la copia. Sei dom Iorges, dico bene?»
Il prelato, rivelando accento greco, gli aveva rivolto la parola quasi senza muovere le labbra.
«Sì, padre. Perché volete che tenga la copia che mi è stato ordinato di fare?»
«Ho chiesto all’abate di poter prendere con me un bravo giovane per un importante compito, richiesto dal Santo Padre in persona.»
Il giovane, Iorges, si trovò a muovere un’obiezione.
«Ma uscire dall’abbazia equivale ad infrangere la Regola…»
«Sono cardinale diacono, e la missione è di fondamentale importanza per il Papato. Il Santo Padre Vitaliano ha fatto affidamento su di noi.»
Iorges sentì nella frase qualcosa di stonato, ed obiettò una seconda volta: «I Cardinali diaconi, che io sappia, sono sette, sono romani e non parlano con accento greco. Voi chi siete?»
«Sono cardinal ΡαεFώθζ, l’ottavo cardinale diacono, presidente del Pontificio Consiglio per la diplomazia. Abbiamo una missione d’importanza fondamentale. E, tra l’altro, se rifiuti dovremo isolarti in qualche eremo, perché hai avuto modo di leggere il manoscritto.»
Non fu difficile per Iorges decidersi; doveva scegliere tra il partire per una missione lontano dal monastero o il ritirarsi, da solo, in vetta a qualche montagna. Chinando il capo, ma solo per nascondere gli occhi che urlavano entusiasmo, rispose:
«Eminenza, vengo con voi…»
Il cardinal ΡαεFώθζ lo condusse alla foresteria, dove li aspettavano due muli. I due uscirono dalle mura senza che alcuno parlasse con loro e senza parlare con nessuno. Iorges, lasciandosi alle spalle la mole del monastero, in cui aveva vissuto per alcuni anni senza alcun contatto con il mondo esterno, era contento per aver esaudito il suo desiderio, ma anche un po’ intimorito dal suo compagno di viaggio. Il cardinale, intanto, lo precedeva in silenzio sulla stretta mulattiera che scendeva attraverso i campi coltivati dai coloni del monastero.
Il sentiero, facendo un’ampia curva, spariva dietro una scarpata. Appena sparito dalla vista il complesso d’edifici, sul sentiero aspettavano due cavalli. Il cardinal ΡαεFώθζ ordinò a Iorges di fermarsi e scendere dal mulo.
«A cavallo si procede più velocemente.», spiegò, e salì con un balzo in sella al destriero, nonostante fosse d’età più avanzata rispetto a Iorges che, invece, arrancò non poco per montare in sella. Quando fu riuscito nel suo intento, Iorges notò il Cardinale che ricopriva la sua lunga veste scarlatta con un manto nero come la notte e imbracciava una scimitarra già seriamente provata nel corso di tante battaglie.
«È meglio essere armati», aggiunse.
E ordinò: «Copriti il capo con il mantello. Non vogliamo farci riconoscere»
Dopo che Iorges ebbe obbedito a ΡαεFώθζ, questi spronò il cavallo attraverso i campi, seguito dal giovane monaco.
Dovendosi recare fuori dell’Italia, a Iorges sembrò normale dover raggiungere un porto, nella fattispecie Anzio o Civitavecchia, che si trovavano a poche ore di cavalcata dal luogo dove si trovavano. Il Cardinale, invece, si diresse verso le cime dell’Appennino. Oltrepassato un agevole valico a pomeriggio inoltrato e discesi fino al mare Adriatico, i due religiosi giunsero ad un’isolata caletta, al centro della quale era ormeggiata un’imbarcazione battente insegne saracene. Sulla spiaggia era stata tirata in secca una scialuppa ed un manipolo di marinai si scaldava intorno ad un fuoco stentato. Era già scesa la sera e, salvo i fuochi che illuminavano la scena, l’aria era buia. Mentre scendeva da cavallo, il Cardinale rivolse la parola a Iorges per la prima volta dopo la loro partenza dal monastero:
«A dispetto dell’impressione, siamo ancora abbastanza lontani dal mare, e non ci imbarcheremmo comunque prima di domattina. Sistemiamoci qui per la notte.»
Iorges era però in allarme per la presenza della nave mussulmana.
«Eminenza, non volete che io vada nei villaggi ad avvisare della presenza di quei pirati? Potremmo salvare molte vite, se riuscissimo a dare l’allarme in tempo!».
Il Cardinale sorrise.
«La nave non appartiene a pirati saraceni. È stata portata qui dal porto di Ravenna per permetterci di giungere in Terra Santa in incognito, se riusciremo ad evitare la flotta di Bisanzio, e per farlo seguiremo una rotta in alto mare. E, in quanto a te, pensa solo a salvare il manoscritto che porti, dom Iorges.»L’indomani il battello lasciò la costa italiana diretto a Damasco.
* A Subiaco, nel ducato di Roma

sabato 13 ottobre 2007

Προλόγος - Rex et sacerdos

Προλόγος*
Il lento incedere dei passi lasciava orme effimere nel sottile strato di sabbia che ricopriva la pianura. Le alte sagome dei monti chiudevano l’orizzonte da tre lati, mentre il fresco gorgogliare di una sorgente riempiva l’aria. Il vento sferzava le stoppie e cancellava i segni dei calzari.
L’uomo, aiutandosi con un bastone, camminava in direzione del giovane rivo, dell’appena nato fiume Choaspe. Nonostante fossero passati tanti anni, le ossa ancora biancheggiavano nella pianura, gli stendardi giacevano strappati, ma intatti per la mancanza di umidità che li aveva conservati come vent’anni prima. Le armi dei caduti si ricoprivano di uno strato di ruggine. Accanto ai resti di due soldati, due spade, ancora macchiate di sangue, rimanevano nascoste dalle sterpaglie. Una delle due spade, però, sembrava non aver subito il passare del tempo. Lucida, benché ci fossero due grosse chiazze di sangue, scintillava come fosse stata appena forgiata. Nell’elsa era incastonata una pietra preziosa tagliata nella forma del monogramma cristiano.
La corazza dell’uomo che l’aveva stretta portava i segni della potestà imperiale bizantina.
Il viandante, dopo averla tersa del sangue coagulato, la sistemò sotto il saio da pellegrino che portava e riprese il suo cammino verso est.
* Prologo